Scorrendo il blog di Andrea Alberghini mi sono imbattuta in testo che accompagnava l’esposizione al XV Napoli Comicon (aprile 2013). Essendo il tema dell’evento, il testo tocca molti dei punti che ho analizzato fin ora, aggiungendo alcuni nomi e spunti che sarà il caso di approfondire!
Se definiamo l’architettura come quel dispositivo che permette ai singoli e alla collettività di rappresentarsi in un contesto sociale, il rapporto che questa arte intesse con i linguaggi d’immagine ci appare in tutta la sua evidente e vertiginosa ricchezza.
In particolare il fumetto condivide con l’architettura lo strumento generativo primario: il disegno.
Se è pur vero che il fine ultimo dell’architettura è quello di costruire e trasformare il mondo in un luogo sperabilmente migliore, il disegno di architettura assolve a una funzione altra ma propedeutica, quella di prefigurare il risultato di tale trasformazione traducendone in immagine le aspirazioni ideali, oltre a essere un potente strumento di critica e riflessione teorica.
Fumetto e architettura sono dunque entrambi caratterizzati da un approccio progettuale che si manifesta nella concezione di mondi possibili: il disegno fissa l’idea su un supporto e diventa il tramite tra l’immaginario personale e collettivo e la realtà, attivando dinamiche circolari di reciproco scambio.
Il fumetto è espressione del bisogno ancestrale di raccontare per immagini insito nell’uomo fin dai tempi in cui pitturava le grotte con scene di caccia e lasciava sulla roccia l’impronta della propria mano soffiandovi sopra il pigmento: un’immagine ripresa e attualizzata in Million Year Boom (2008) di Tom Kaczynski i cui fumetti ci svelano un futuro immanente costellato di architetture glaciali e alienanti.
La dimensione scenografica e narrativa è d’altra parte connaturata all’oggetto architettonico che, inserito nello spazio, viene osservato da più punti di vista e percorso secondo direttrici molteplici che il progettista con la propria maestria può suggerire, ma non imporre, sfruttando gli elementi a sua disposizione e le convenzioni culturali del contesto in cui si trova a operare.
In questa ottica le cattedrali gotiche possono essere citate come l’esempio più elevato di architettura, in cui ogni elemento costruttivo e decorativo, dalle colonne agli archi rampanti alle vetrate istoriate concorreva a materializzare in un vero e proprio “libro” di pietra e vetro la summa teologica agostiniana.
Appare del tutto evidente, allora, come fin dal momento della sua esplosione sui grandi giornali statunitensi agli inizi del XX secolo il fumetto sfrutti la potenza iconica e comunicativa dell’architettura da un lato per permettere ai lettori di identificare gli scenari urbani che fanno da sfondo alle storie narrate, dall’altro per immergerli in mondi fantastici e suscitare in loro il senso del meraviglioso.
In Dream of the Rarebit Fiend (1904-1910) Winsor McCay, insuperato maestro della prospettiva, omaggia ripetutamente il Flatiron Building di Daniel Burnham che solo pochi anni prima (1902) aveva cambiato il profilo di New York; ed è probabilmente superfluo ricordare le sontuose tavole di Little Nemo in Slumberland (1905-1913, 1924-1927) ambientate nella reggia di Re Morpheus, la cui architettura onirica è direttamente ispirata a quella maestosa dei palazzi in stucco bianco della Fiera Mondiale Colombiana di Chicago del 1893.
La metropoli nordamericana degli anni Trenta genera doppi fantastici illuminati dal sole abbagliante dell’ottimismo sfrenato indotto da un capitalismo in apparenza inarrestabile (che si sedimentano nella Metropolis di Superman) o immersi nelle tenebre di una notte perpetua generatrice di incubi (che partoriscono la Gotham City di Batman): città sottoposte allo sguardo vigile di uomini mascherati, supereroi che ne incarnano le contraddizioni.
Il modello sono le luci e le ombre di una New York che si auto-celebra nella Fiera Mondiale del 1939-40.
Quelle effimere architetture immaginifiche e avveniristiche lasceranno un segno indelebile nell’immaginario urbano, un’eco che risuona tuttora nella nostalgia per un futuro radioso mai concretizzato che pervade la produzione a fumetti di autori come Howard Chaykin (American Flagg, Time2) e Dean Motter (Mister X, Terminal City, Electropolis).
Un sorprendente corrispettivo ha luogo trent’anni dopo al di là del Pacifico.
L’Expo 1970 di Osaka incarna per qualche mese il sogno metabolista di un gruppo di giovani architetti giapponesi chiamati a raccolta dal nume tutelare Kenzo Tange. Il ricordo di quell’evento e le vestigia solitarie che ne restano oggi, prima tra tutte la torre-totem di Taro Okamoto, informano il pluripremiato manga 20th Century Boys (1999-2006) di Naoki Urasawa.
A conferma di come le Fiere mondiali siano stati importanti laboratori di immaginario e di sperimentazione architettonica, anche sull’altra sponda dell’Atlantico il monumento dell’Atomium eretto per l’Expo ’58 di Bruxelles ispira Joost Swarte a coniare nel 1977 il felice termine “Atomium Style” per definire uno stile di fumetto che si rifà al modernismo degli anni Cinquanta tanto nell’eleganza del segno quanto nel design delle ambientazioni.
La città in perenne trasformazione diventa così per il fumetto luogo privilegiato delle sue avventure.
Per Will Eisner è la scena teatrale del dramma di vivere;
Theo Van Den Boogaard ne fa il fondale impeccabile delle catastrofiche avventure di Léon-la-Terreur;
Nicholas De Crecy immagina una New York turrita e imponente costruita con escrementi canini sulle sponde della Loira;
Frank Miller fonda Sin City su un bianco e nero manicheo e minimalista;
Alan Moore rintraccia la follia di Jack Lo Squartatore nella psicogeografia occulta di Londra;
Paolo Bacilieri canta una Milano forse mai così autentica;
e nei loro fondali fotografici i mangaka registrano l’ordine caotico della città orientale esplorata a piedi dall’Uomo che cammina (1992) di Jiro Taniguchi.
Moebius, Enki Bilal, Philippe Druillet fanno della città del futuro il terreno fertile per raccontare mondi lisergici e incubi distopici di insuperata potenza immaginifica e portata cosmica.
L’ombra della distruzione imminente domina l’immaginario urbano nipponico da Go Nagai a Katsuhiro Otomo, ma dopo l’11 settembre si proietta anche sull’Occidente. Nella New York sotto assedio raccontata da Brian Wood in DMZ (2005-2012) l’involucro dell’Empire State Building si erge a testimone di una guerra fratricida per poi riconsegnarsi in tutta la sua gloria alla Nazione riappacificata.
La figura dell’architetto, ammantata di fascino, diventa anch’essa protagonista di storie e omaggi memorabili.
Ombra tra le ombre, Mister X (1984-) si aggira tra i grattacieli di Radiant City alla ricerca spasmodica della propria identità nel tentativo, destinato al fallimento, di porre rimedio ai danni prodotti dalla sua stessa psicoarchitettura.
I sogni di Frank Lloyd Wright vengono narrati da Andreas in un intrigante gioco intellettuale di scatole cinesi ne Le Triangle rouge (1995), mentre Cosey usa l’architettura del grande maestro americano come sfondo di una delle sue romantiche storie d’amore. E sempre attraverso una storia d’amore David Mazzucchelli ci consegna la figura tragica di Asterios Polyp (2009), architetto teorico di impronta razionalista ossessionato dalla propria visione dicotomica del mondo.
Lo scontro tra una visione totalmente razionale e le forze irrazionali che pervadono l’universo caratterizza anche l’urbatetto Eugene Robick, personaggio di spicco de Les Cités obscures (1983-) di François Schuiten e Benoit Peeters, seminale ciclo utopistico-retrospettivo fortemente informato dall’architettura nouveau di Victor Horta e fattivamente correlato, attraverso i cosiddetti “luoghi di passaggio”, al mondo reale.
Non deve dunque stupire la naturalezza con cui personalità di spicco del mondo del fumetto quali François Schuiten e Joost Swarte si siano dedicate con successo alla progettazione di interventi di architettura come la stazione Arts et Metiérs (1994) della metropolitana di Parigi o il teatro Toneelschuur (1996-2003) di Haarlem.
Il mestiere di scenografo fa parte integrante dell’attività professionale di Marc-Antoine Mathieu i cui fumetti sono acute riflessioni tra spazio architettonico, spazio grafico e spazio narrativo.
Sulla costruzione delle storie correlata ai luoghi dell’abitare gioca Chris Ware in Building Stories (2012), opera che fa della materialità del fumetto un vero e proprio elemento narrativo. Modellini di carta da ritagliare e incollare per ricostruirne le ambientazioni impreziosiscono le pagine dei volumi della sua Acme Novelty Library (1993-) mentre il canadese Seth, per diletto personale, ha realizzato i plastici in cartone di numerosi edifici della fittizia Dominion City che fa da sfondo alle storie da lui narrate su Palookaville (1991-).
Se il costruire seduce gli autori di fumetti, con la stessa naturalezza il raccontare per immagini attrae artisti con una formazione specifica nel campo dell’architettura.
Guido Crepax, Attilio Micheluzzi, Matteo Alemanno, Manuele Fior, Matthias Gnehm sono solo alcuni esempi di architetti che hanno saputo magistralmente trasporre la loro sensibilità culturale, compositiva e spaziale nella letteratura disegnata. Anche Massimo Iosa Ghini, architetto di fama internazionale, ha un trascorso giovanile di autore di fumetti e considera tuttora il suo Sillavengo dei primi anni Ottanta un fondamentale laboratorio di progettazione senza vincoli.
L’architettura stessa, dall’altra parte, subisce il fascino del fumetto.
Negli anni Sessanta il gruppo avanguardista inglese Archigram lo riprende come elemento forte di estetica pop per comunicare le proprie visioni di un futuro tecnologico e seducente.
Nel 1987 Barbara Radice di Memphis Design organizza a Milano la mostra Architectural Strips coinvolgendo i fumettisti del gruppo Valvoline.
Nel 1990 Willem-Jan Neutelings vince il concorso internazionale per la sede dell’Ufficio Europeo dei Brevetti di Leidschendam utilizzando il fumetto per comporre un’efficace presentazione del proprio progetto. In tempi più recenti l’architetto danese Bjarke Ingels ne sfrutta la tecnica nel corposo manifesto Yes Is More (2009) dello studio BIG da lui diretto.
Nelle sue caustiche vignette sul mondo dell’architettura lo spagnolo Klaus si avvale del cartoon come efficace strumento di critica disciplinare.
Per Jimenez Lai il fumetto diventa elemento programmatico e progettuale di architetture ibride che mettono in discussione i concetti di interno ed esterno, e anche in Italia collettivi come Studio Tam Associati e Parasite 2.0 ne fanno uso nella loro ricerca per un’architettura etica e responsabile.
Caduto il pregiudizio culturale nei confronti del medium, un’intera generazione di giovani architetti, da un lato all’altro del globo, tende dunque a usare il fumetto con crescente consapevolezza e competenza, con sperimentazioni che arrivano a integrarlo nell’edificio stesso come in The Factory (2009) a Honk Kong di Alberto Cipriani (dello studio RAD) e Mauro Marchesi.
Architettura e fumetto, due arti che rispecchiano la società e che nel corso dell’ultimo secolo sono state protagoniste di rimandi e influenze reciproche; giochi e ammiccamenti, in apparenza, sostenuti tuttavia da poco visibili ma solide basi strutturali. In un’epoca che vede assottigliarsi giorno dopo giorno i confini tra le discipline attendiamoci per il futuro stimolanti e splendide sorprese.